Ero nata in una città divisa a metà dal fiume, una parte per gli irlandesi, una parte per gli inglesi. E guai a capitare dalla parte sbagliata. Avevo mosso i miei primi passi accanto ai carrarmati dei soldati inglesi in uniforme che pattugliavano con i fucili una città dove erano stranieri. A Derry c’era la guerra, e il terrore lo conoscevamo tutti benissimo. L’idea della morte non ci era estranea. Era sempre lì, dietro la porta. Camminavamo accanto alla morte tutti i giorni e cercavamo solo di pregare più forte che potevamo, Dio o le fate, perché ci aiutassero a tenerla il più distante possibile.
Ho scelto questo libro dalla copertina, lo confesso, e non è nemmeno la prima volta. Pensavo fosse un fantasy, perché ho il vizio di tralasciare le sinossi o di scorrerle a malapena, quasi avessi paura che possano rivelare troppo. Per me un libro è qualcosa da scoprire, meno ne sai e meglio è. Perché può stupirti, lasciarti l’amaro in bocca oppure una carezza sul cuore, ma in ogni caso ti spiattella in faccia le sue verità; questo, in particolare, non lascia addito a interpretazioni sbagliate, perché la sua verità la grida e tu non puoi fare a meno di ascoltarla. Lo fa attraverso le parole lucide di Saoirse, la bellezza di Orla, l’inquietudine silenziosa di Cillian e gli occhi rabbiosi di Aidan; lo fa raccontandoci un’Irlanda spezzata dal dolore, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando il sangue scorre nel Bogside e le rivolte, i riot, sono all’ordine del giorno, mentre i militanti dell’IRA sono guerrieri senza armature, ma con un sogno per cui vale la pena morire. Un romanzo così, un lungo flusso di coscienza agitato quanto le acque del Foyle, non può che essere scritto con precisione, attraverso un’accorata scelta di parole, pause e movimenti, privo di orpelli inutili nel rappresentare una realtà storica schiacciante, dove l’animo umano talvolta si perde cercando un senso per andare avanti. Non siamo allo Zoo di Berlino, e capirete il doloroso riferimento letterario se lo leggerete, e non stiamo nemmeno spulciando tra le ceneri di una certa Angela. Eppure il linguaggio crudo, diretto e senza scuse, colpisce il lettore come una molotov, chiedendogli di tornare lì, in quei quartieri che cercano di riappropriarsi di una parvenza di normalità, anche quando le madri mettono da parte le bottiglie di vetro per farne delle armi e i ragazzini sanno che non devono stare seduti sui davanzali delle finestre. È un obbligo dettato non tanto dal timore che possano cadere e farsi male, alla fine nel Bogside le case hanno al massimo due piani, ma perché potrebbero essere colpiti da un proiettile sbagliato. E questo, amici Magnetici, è il primo divieto. Il secondo è quello di non giocare a nascondersi dietro le camionette inglesi e dietro i sangar, fortificazioni protette dalle barricate di sabbia che si trovavano quasi sempre agli angoli delle strade dei quartieri irlandesi come il Bogside.
Tutti rispettano il primo, ma come impedire ai bambini di giocare? Cosa succede se, in un giorno qualsiasi e per una banale lite in mezzo alla strada, scoppia una tragedia? Succede che si innescano definitivamente le ragioni del distacco tra l’infanzia e l’età adulta, saltando tutte le tappe, alla velocità terribile che ha a volte la vita nel prendersi parti di te che non torneranno più indietro. Rimangono il sangue sull’asfalto e il vapore nero lasciato da una camionetta impazzita, insieme ad anime che, in un modo o nell’altro, non ritroveranno più il riflesso di un’innocenza perduta. Eppure, nonostante il tuono feroce dei riot, gli anni passano e i protagonisti si sfilano dal tempo rimanendo come sospesi, concentrati sulla sopravvivenza e sul fuoco che divampa nelle vene; accanto alla guerra e alla rabbia nei confronti degli inglesi, i sentimenti riescono a farsi strada, come un fiore selvatico che sfida l’asfalto e la cenere.
Per tutta l’infanzia io, Orla e Cillian eravamo stati così vicini da sfiorarci. Un po’ distante da noi c’era Aidan, quello più grande, quello più bello, quello che giocava alla rivoluzione quando noi giocavamo ancora a inventare storie di gnomi e fate.
Nonostante sia Saoirse a parlare, la sua storia non può prescindere da quella degli altri; hanno il Bogside dentro, insieme al vento freddo che sferza impietoso e paure che ognuno cerca di affrontare come meglio crede. Aidan è certo il cuore palpitante della protagonista ed è sia il perfetto comprimario che antitesi di Saoirse; tanto lei è fredda e lucida nella maggior parte delle situazioni, anche da piccola, quanto lui è facile preda della rabbia e incline alla violenza. Rappresenta la spinta verso la scelta di Saoirse di avvicinarsi all’esercito repubblicano, senza nulla togliere al fatto che tutti i bambini sono cresciuti sapendo di dover odiare gli invasori e sperare in un’Irlanda unita. La loro storia nasce e cresce in modo naturale, semplice, un rifugio per scendere a patti con la guerra e con le perdite che funestano le loro vite, uno sprazzo di luce che illumina il prato che conduce a quel cimitero così pieno di lapidi di uomini e donne troppo giovani per morire. In questa coppia, feroce come un abbraccio, risuona la musica antica di una terra che vuole riappropriarsi di se stessa e della propria memoria. E loro, per usare le parole di Saoirse, con la memoria sono bravissimi.
Derry è un memoriale a cielo aperto sotto un manto di nuvole grigie. Ogni muro racconta una storia di morte. Dietro ogni angolo c’è una statua commemorativa, una targa o anche solo un mazzo di fiori lasciato legato a un lampione per chi ancora non vuole lasciare andare i ricordi.
E poi c’è il capitolo diciannove. Se solo questo, in particolare, spingesse i lettori ad aprire Wikipedia per cercare la data del 30 Gennaio 1972, allora il libro avrebbe servito il suo scopo. Io non ero ancora nata all’epoca, ma ho avuto la fortuna di amare la musica irlandese e poi, andiamo, chi non conosce gli U2? Non solo loro hanno scritto un pezzo che è passato alla storia, ma altre voci si sono levate al cielo per gridare al dissenso e all’ingiustizia perpetrata in quell’occasione. La Domenica di Sangue è solo una delle innumerevoli macchie che sporcano la Corona eppure, anche se avvenuta in tempi recenti, è stata infangata con menzogne e scuse fuorvianti per nascondere l’ennesima strage di persone innocenti che manifestavano il proprio diritto al dissenso, disarmati. Perché pongo l’accento su questo? Perché i libri devono intrattenere, è vero, ma nel farlo devono anche incuriosire e smantellare conoscenze approssimative. Oggi è possibile reperire informazioni ovunque e, tutto sommato, anche non di parte: quindi, una volta finito il romanzo, fatevi un giro in rete, perché tanto sui manuali scolastici di certo non troverete niente al riguardo. A me, a scuola, nessuno ha mai parlato della lacerazione dell’Irlanda, un paese così vicino a noi e con un patrimonio culturale, religioso e artistico tra i più grandi d’Europa. Nessuno mi ha parlato dei campi verdi sterminati e del mare che ti ferisce gli occhi per il suo colore particolare. L’ho dovuto scoprire da sola, attraverso la musica e i racconti, tutto quello che di meraviglioso appartiene a una terra troppo a lungo dilaniata da una divisione inconciliabile. È una terra irrequieta e quindi irrequiete devono essere le parole usate per descrivere una delle pagine più amare della storia moderna. “Riot” ha grandissimi meriti, in questo, e il mio augurio più sincero è che spinga a porsi delle domande, a curiosare negli archivi, a chiedersi i motivi di un odio così profondo, ma soprattutto di un amore così totalizzante per il proprio paese.
Ogni anno, il 30 gennaio, ovunque io sia, sento ancora l’odore acre di polvere da sparo. Il corpo accusa il colpo. Il corpo non dimentica.
E il corpo diventa il luogo di combattimento di una nuova guerra, soprattutto per la protagonista, fino a quando non trova una nuova strada. Come le storie, anche le sue vene e i suoi muscoli le si stringono attorno come un laccio potente, volendo appropriarsi di una voce unica, che attraverso lamenti acuti cerca di ricostruire un’unità che pare perduta. Come il ghigno di una Banshee che incute timore ai giovani e agli adulti, è il tempo adesso di prendere in mano una pistola, metaforica e non, e puntare ai bersagli che la vita ti mette davanti. Con lucidità e metodo, affamandosi, Saoirse trova uno scopo, ma soprattutto comprende che è proprio nell’atto di trovarlo il luogo in cui risiede la via per uscire dall’angoscia. E dopo uno scopo ne viene un altro, più alto forse, ma di certo non meno complesso, che comporta la messa in discussione dei legami con sua madre prima e con gli amici dopo. Il punto di rottura avviene quando, ormai militante, dovrà scegliere se seguire la fedeltà al cuore o all’IRA; poiché abbiamo imparato ad amarla, possiamo immaginare quale sarà la sua scelta così come quella di Aidan. E in tutto questo, negli anni che scorrono e che portano nuovi fantasmi a far compagnia ai vecchi, alcune certezze sono destinate a non scomparire, mai. Se le parole sono taciute i corpi trovano il modo di urlare e la fisicità di tutti quanti non è che lo specchio di quanto hanno dentro. La bellezza di Orla, l’avvenenza di Aidan, l’ombra di Cillian; tutti parlano attraverso i corpi, mentre le parole, a volte, mancano. Non a Saoirse, che scrive storie per divertirsi e per mettere ordine nei propri pensieri, ma coloro che la circondano fanno spesso fatica a far uscire la propria voce, come se temessero di veder cristallizzate emozioni destinate a morire.
«Ma sai com’è fatto Cillian».
«Non parla» confermai. Sospirai, mi sollevai anche io e poi chiusi gli occhi.
«Nessuno di noi parla, Saoirse».
Aprii di scatto gli occhi per guardarla. Non compresi immediatamente quello che voleva dirmi, ma la pesantezza di quelle parole mi colpì, come qualcosa di cui ero consapevole soltanto al di sotto della linea della ragione.
Cosa dirvi di più, amici Magnetici? Leggete questo libro e lasciatevi trasportare dalla furia che scorre, lenta e metodica, nel sangue di chi ha scelto un ideale più alto. Vi sembrerà di trovarvi in un mondo lontanissimo, ma questa è la realtà di appena mezzo secolo fa, che si trascina testarda attraverso le pagine della Storia e di un romanzo che ha davvero tanto da dire. Amerete il linguaggio scarno, la forza del legame che unisce i protagonisti e persino il rumore violento delle bombe; Edith Joyce non ci concede sconti, ma lo fa con una penna che, seppur intrisa di consapevole coscienza, regala scorci di poesia rari e per questo ancora più preziosi. Leggetelo e riflettete molto bene sull’impatto che la guerra ha sull’animo umano; fatelo senza pregiudizio o timore, con cuore e mente bene aperti e, soprattutto, con gli occhi vivi dei bambini del Bogside che, oggi come non mai, si affacciano alla vita in troppe parti del mondo.
‘Una volta nel Bogside, per sempre nel Bogside’. Lo pensavo davvero. Non volevo rinnegare da dove venivo, ero fiera di avere una molotov al posto del cuore, ma per la prima volta sentii con forza la voglia di appartenere anche a qualcos’altro.
Nessun commento:
Posta un commento