Il Signore della notte eterna è un romanzo autoconclusivo, M/M, ispirato a La Bella e la Bestia, ma con un po’ più di carattere.
Jak ha un solo obiettivo nella vita: spezzare la maledizione, o morire provandoci.
La vita di Marius non ha alcuno scopo; non da quando è stato condannato a trasformarsi in una creatura della notte perversa e assetata di sangue.
Per anni, le streghe hanno aspettato la loro salvezza, un modo per ritrovare la magia, perduta quando la maledizione è stata lanciata.
Jak, un ragazzo nato con dei poteri che le streghe non possiedono più da un secolo, è il loro profetizzato salvatore, l’unico che può uccidere la creatura, spezzare la maledizione e restituire la magia alla sua congrega.
Mandato al castello della creatura come ultimo Rivendicato, Jak dovrà avvicinarsi abbastanza da poterla uccidere, poiché è per questo che è stato addestrato da sempre.
Non tutto è come appare, però, quando Jak inizia a svelare segreti e mezze verità, e la creatura sembra non essere la bestia inquietante che è stato portato a odiare.
Sarà una lotta contro le proprie emozioni quando nasceranno dei sentimenti inaspettati.
Cosa può essere più pericoloso dell’odio? Il desiderio.
Per anni, avevo osservato i Rivendicati attraversare le strade di Darkmourn in direzione dei confini del castello, ma il mio interesse era sempre stato di natura educativa. Studiavo il modo in cui si comportavano mentre camminavano, o venivano trascinati, verso il loro destino, e spesso mi ero ritrovato a chiedermi come sarebbe stato una volta arrivato il mio turno.
Poi il momento arriva quando, compiuti ventuno anni, il progetto su cui tutta la sua vita è stata costruita finalmente si compie; Jak è l’unico stregone, l’ultimo di generazioni ormai prive di magia, allevato allo scopo di entrare nel castello e uccidere la Bestia che ha tolto il potere alle streghe. Come questo sia avvenuto è in parte svelato già al principio della narrazione perché, grazie a una maledizione, al principe oscuro è stato impedito di uscire, condannandolo a una vita eterna di abomini e terrore. La leggenda narra che proprio l’arma scagliata contro il nemico si sia rivoltata contro colei che l’ha lanciata, infliggendo alle streghe l’imperitura costrizione di esistenze normali, alla stregua di semplici umani; al tempo stesso, ha anche predetto che il centesimo Rivendicato avrebbe finalmente capovolto le sorti del crudele destino della congrega. Jak non solo è addestrato, ma detiene il controllo sui quattro elementi, che gli rispondono in modo più o meno violento a seconda del suo stato d’animo. Certo del proprio scopo, e alla stregua di un soldato indottrinato, decide di affrontare il proprio compito con consapevolezza mista a innocenza, sicuro della vittoria e della conquista dell’affetto della donna che l’ha cresciuto come un’arma e non come un figlio. Il ruolo della sua casata all’interno della società è ambivalente, perché proprio sua madre è il punto di riferimento per coloro che sperano di riacquistare i perduti poteri; lacerati poiché incompleti, perpetrano da un secolo il sacrificio di inviare un giovane prescelto per tentare di sconfiggere il terrore nel castello. Jak ha la pelle intrisa di questa responsabilità perché non ha mai conosciuto una vita diversa da quella in cui è solo il figlio della donna che aveva scelto tutti coloro che mi avevano preceduto. Sin dalla prima Rivendicazione, era stata la nostra famiglia a stabilire il ragazzo da inviare, consapevole che prima o poi sarebbe toccato a me.
Alla ricerca di un modo per ristabilire l’equilibrio, Jak attraversa la barriera impenetrabile che lo conduce nelle ombre che infestano i giardini, di certo un tempo bellissimi anche se adesso ammantati di oscura malinconia e popolati di bestie feroci, fino alle porte di quel maniero senza tempo, dove nessuno lo accoglie se non il padrone di casa. Il giovane non è preparato all’incontro con Marius, che è quanto di più lontano da ciò che si sarebbe aspettato; l’algido e bellissimo uomo che lo invita con gentilezza a entrare non è la bestia furiosa di cui ha sentito parlare e che è stato addestrato a odiare. Eppure la storia è chiara; a ogni Luna di Sangue, tutti i Rivendicati che lo hanno preceduto sono scomparsi, anche se i loro corpi non sono mai stati ritrovati. Solo il primo è stato abbandonato ai confini, ma nessuno dopo di lui ha mai fatto ritorno a casa, neanche da morto.
I suoi occhi erano del colore dell’ossidiana. No. Osservai più da vicino. Erano rossi. Di un rosso talmente scuro da farli sembrare due voragini di tenebra. Lui, d’altro canto, era luce pura. Dal bianco dei suoi capelli curati alla luminosità della sua pelle, che sembrava risplendere di luce propria. Tutto il suo corpo sembrava essere stato realizzato da fili di luce lunare.
Se l’inizio della conoscenza tra loro è di certo turbolenta, ben presto l’interesse reciproco e l’immenso carisma di Marius, velato da un dolore mai sopito che spesso si trasforma in repentina rabbia, fanno in modo che i due si avvicinino sempre di più; tanto Jak è giovane e inesperto seppur cresciuto come un assassino, quanto Marius, le cui mani sono sporche di sangue, è cupo e al tempo stesso curioso nei confronti della vita che troppo presto gli è stata strappata perché ha osato amare la persona sbagliata. Ed è proprio lui, che ha la bellezza dentro gli occhi pur consapevole di essere un mostro condannato a ripetere sempre le stesse azioni, il vero fulcro del romanzo; quel Re della Notte Eterna che è tale solo perché nel sonno trova la quiete anelata e dunque spera che tale sonno diventi senza fine. Marius è Morte e Vita al tempo stesso, in un continuo altalenarsi d’ingenui desideri e consapevoli torture, inflitte in primis a se stesso. Con lui un’intera corte è maledetta, alla stregua di quella del castello dove Belle è fatta prigioniera da una Bestia che non è l’unica a patire una trasformazione perenne e punitiva fino all’arrivo del vero amore. In questo retelling, dove i protagonisti sono due uomini e il cattivo non ha pelo, ma canini aguzzi e sete di sangue, ancora una volta i corridoi oscuri e una biblioteca immensa la fanno da padroni; nello studio di Marius apprendiamo parte della sua storia, grazie alla quale Jak inizia a osservare la situazione non più solo attraverso gli occhiali monocolore imposti dalla madre, ma con gli occhi del cuore. I libri che Marius scrive, a imperitura memoria di quello che è costretto a fare nella notte maledetta in cui tutti i giovani prima di Jak sono caduti, sono lo splendido escamotage con cui le sue azioni possono trovare espiazione, anche se è certo che nessuno li leggerà mai. Il fatto che a Jak sia permesso l’accesso a quelle pagine, e in effetti a ogni parte del castello, è prova di una fiducia che inizia a consolidarsi da entrambe le parti. Ed è questo il momento in cui i confini si sfaldano, attorcigliati come le ombre che assumono forme terribili in giardino; se le anime dei morti, ammesso che siano loro, vagano per le terre d’ombra nelle vicinanze, allora forse Marius deve essere protetto anche da se stesso e dal proprio immenso senso di colpa. Saranno due figure all’apparenza inconcepibili a dare a entrambi un po’ speranza. Elizabeth è una giovanissima umana che frequenta il castello riferendo a Marius le notizie del mondo al di là delle mura; è grazie a lei che Jak scopre un ulteriore segreto relativo al misterioso padrone di casa.
«Ha del miracoloso, non credi? Come fa una maledizione a contenere tanta… bellezza? Il mio sangue possiede proprietà curative che mi tengono in vita, ma può anche guarire gli altri se ingerito.»
Oltre ad Elizabeth, un altro incontro segna profondamente Jak; il castello, all’apparenza disabitato, è invece popolato, ma non voglio svelarvi di più per non rovinarvi la lettura. Se però vi aspettate tazze e teiere parlanti, oltre che candelabri un po’ saccenti, allora resterete delusi. Gli oggetti inanimati restano tali, anche se hanno un modo tutto loro di spostarsi e comparire seguendo un ritmo che pare magico, ma che ha spiegazioni illuminanti e anche, se vogliamo, abbastanza pratiche. Se da un lato riusciamo a immergerci nella storia grazie al punto di vista, purtroppo univoco, del protagonista, è al contempo difficilissimo parlare di personaggi secondari in un libro dove gli avvenimenti si svolgono per la maggior parte intorno alla coppia principale. Il fattore isolamento limita le interazioni con altri, ma così come simpatizziamo subito con Elizabeth e Lamiere, allo stesso modo sentiamo un immediato senso di repulsione nei confronti della madre di Jak, nonostante la sua presenza totale nella narrazione equivalga a un battito di ciglia. Il romanzo conta meno di trecento pagine, quindi potete immaginare che scorra in modo veloce. La lettura non ne risente ed è piacevole, ma, a mio avviso, sarebbe stata ancora migliore se fosse stato utilizzato il punto di vista alternato. Il dolore di Marius e la sua incapacità di scendere a patti col senso di colpa avrebbero posseduto ulteriore forza se avesse avuto lui stesso la parola, anziché essere filtrati dai pensieri di un’altra persona. Lo scarno capitolo a ridosso dell’epilogo in cui lo fa è troppo poco; tra i due non vi è alcun dubbio che il vero punto focale della storia sia la terribile bestia che il villaggio vuole uccidere e Jak, per quanto stregone potente e causa scatenante della maggior parte degli eventi, non può rendere al meglio la complessità del vero protagonista.
«Quando perdi tutto ciò che ami, a volte il dolore può tornare a rovinare i piccoli momenti di felicità che ti sono rimasti. È un assassino silenzioso, appostato nel buio dell’anima di una persona, pronto a ingoiare qualsiasi forma di luce.»
Essendo ormai chiaramente di parte avrete capito, Amici Magnetici, che avrei voluto un libro più lungo e con Marius lasciato libero di esprimersi, sia a parole che con i fatti. Se il primo aspetto l’ho già sviscerato, il secondo lo riassumo in una frase: lo avrei voluto davvero, ma davvero, tanto più cattivo. Avrei voluto che quel lato oscuro che predomina solo in determinati periodi fosse una costante ingannevole; avrei desiderato molto più sangue, contrasti, dolore, oltre a una costruzione più ampia e solida, con maggior rilievo dato a Elizabeth e alle creature terribili che si muovono nell’ombra. La mia fantasia ha preso il largo, ve lo confesso, di fronte a certi aspetti del castello e dei suoi dintorni, così ricchi di potenziali spunti narrativi. Come sempre la mia è solo un’opinione personale, che nulla toglie a un racconto originale dove il sentimento è il fulcro di ogni azione e il legame con un passato insepolto resta, a riprova tangibile del fatto che non si può sfuggire da quello che si prova. Oltre a questo, ancora una volta il tema del diverso da sé è predominante; come in tutte le favole e i retelling che si rispettino, il libro si appropria di una figura ormai assunta a livello di mito, quella del demone sanguinario, e ci restituisce la battaglia che quest’ultimo, al pari di qualsiasi altro essere umano, compie per trovare il proprio posto. Marius si erge come una luna argentea in una notte senza luci e stelle, colmo di un dolore antico che adesso ha trovato un nuovo recipiente che può accoglierlo oltre le barriere imposte da un dovere innato, quello di annullare il non conosciuto perché una maledizione antica ne ha dettato il ritmo prima ancora che lo strumento per farlo venisse alla luce. È una storia moderna, soprattutto oggi, dove l’odio radicato per generazioni trova il suo pugnale in un giovane che sa di dover adempiere a un destino che non ha chiesto e non ha voluto, ma che, di fronte al linguaggio universale del sentire, lascia andare quella costrizione per trovare, nella tenebra perenne, un raggio di luce che ha il sapore amaro di una speranza dimenticata.
«Sei unico», gli dissi. «Sono un demone.» «Siamo tutti dei demoni. Solo che alcuni lo nascondono meglio di altri.»
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