giovedì 2 novembre 2023

Recensione a "Cronache della mia fame" di Claire Kohda

 


Genere: Narrativa
Editore: HarperCollins Italia
Data d'uscita: 5 Settembre 2023
Pagine: 231
Prezzo: eBook 9,99 - cartaceo 17,57

 
 
 
 

Lydia è affamata.


Ha ventitré anni da molto tempo e ha sempre voluto provare sashimi, ramen, onigiri con umeboshi… tutto quello che suo padre amava mangiare. E poi ancora gelati, torte e gli ortaggi che vengono coltivati dagli altri artisti come lei, nel complesso di loft in cui dovrebbe solo lavorare, ma in cui segretamente vive.


Eppure, Lydia non può mangiare nessuna di queste cose. Il suo corpo non funziona come quello degli altri. L’unica cosa che riesce a digerire è il sangue... Purtroppo procurarsi sangue fresco di maiale a Londra – dove si è trasferita da quando si è separata dalla madre, vampira anche lei – sembra più difficile di quello che credeva.


Adesso ha intorno molti più umani del solito: i colleghi della galleria d’arte dove lavora, lo strano uomo che la segue quando scende la notte, e poi Ben, un ragazzo dall’aspetto fanciullesco e con un sorriso un po’ goffo ma adorabile. Lydia sa che tutte queste persone sono le sue prede naturali, ma non sa convincersi a nutrirsi di loro, e così passa le nottate a fare binge watching di Buffy The Vampire Slayer e video di ragazze che mangiano su YouTube, e a riflettere sul suo vero posto nel mondo.


Perché Lydia ha dei doni che tutti desiderano: gioventù eterna, invulnerabilità, immortalità, e tuttavia si sente infelice, sola e soprattutto ha molta, molta fame. Deve trovare un senso alla sua esistenza. Ma in ogni caso, prima di tutto, deve mangiare…

 
 
 
 
 
 
 
 

 

Mi sento più a mio agio nel buio. Non è che le lampade di questo posto possano bruciarmi; è solo che a volte la troppa luce è opprimente, specie dopo una giornata piena di cose che non sono abituata a fare–riempire pacchi, trasferirmi, viaggiare. Sono troppi input, il che è doloroso per il cervello, non necessariamente per la pelle. Comunque, la luce del sole sì che brucia. Non come si vede nei film e nei programmi tv; non emetto fumo, non sfrigolo, non prendo fuoco. Piuttosto, la mia pelle brucia come se non avesse alcun pigmento, come se fossi senza melanina, completamente e perfettamente bianca.

 

Non ricordo esattamente cosa mi ha portata a scegliere questo libro, lo confesso, forse il fatto di essere a dieta in un esercizio di puro masochismo letterario. Credo anche di non aver fatto i conti, come spesso succede, con quello che mi sarei trovata tra le mani, ma ormai ci siamo abituati e possiamo farcene tranquillamente una ragione. Stabilite le premesse, penso che scrivere di questo romanzo, dico solo scrivere e non recensire, sia un’impresa abbastanza difficile. Appena terminato, un aggettivo mi si è stampato davanti agli occhi, perché le parole mi compaiono per immagini per qualche motivo, come una luce al led arancione: asciutto. Questo libro, per me, è scritto in modo asciutto. Ci sono termini che per la maggior parte delle persone non sono ascrivibili a determinati contesti. Con me funziona in modi diversi, ma visto che non siamo qui a parlare della sottoscritta quanto di un’opera letteraria, cercherò di spiegarmi meglio. A differenza del solitotralascio qualsiasi accenno di sinossi e mi concentro subito sul fatto che lo stile e la storia sono imprescindibili, in quanto entrambi si determinano l’un l’altra dando vita a una serie di parole gettate sulla carta con lo scopo preciso di tenere il lettore in sospeso, nella smania di sapere come va a finire. Ma poi, come va a finire che cosa? Come un quadro assurdo o una foto spaventosa, il romanzo si snoda in un tempo sospeso, fissato in un presente che pare immobile, quando sottopelle invece scorre come sangue nelle vene, quelle della protagonista o di coloro che la circondano. Lydia parla in prima persona, in un flusso di coscienza ininterrotto, anche quando sembra perdere il filo per divagare sull’arte o sul cibo. In un teatro dell’assurdo vicino alle stranezze del circo Barnum, circondati dagli strani animali di Walter Potter o sperduti davanti ai sorrisi delle tre giovani di Amrita Sher-Gil, siamo affascinati spettatori di un’esistenza che si srotola attraverso le parole stesse, come se da queste prendesse vita quando vengono pronunciate. E sono, come detto sopra, parole asciutte. Delicate, ma decise, stilettate perfettamente a proprio agio in una Londra piovosa e viva, prendono forma come un piatto giapponese accuratamente confezionato, più attente all’estetica che al contenuto. Lydia parla, parla e dipinge, muovendosi come una marionetta di cui non si conosce il padrone, su piani spaziali ridotti, ma immensi, così come senza fine appare la sua fame. E poco importa che vi sia una spiegazione logica, Lydia è un vampiro, perché tutto quello che lei sente e la riduce all’inazione non è che la consapevolezza di esistere nel momento in cui si esprime. Non parla molto con gli altri, ma si sfoga sulla tela, non agisce, ma percepisce la spinta a muoversi con l’immenso sforzo che ne deriva, in un esercizio di stile costante e lineare che non perde mai il proprio scopo, nemmeno quando divaga su opere precise denotando una conoscenza approfondita sia del mondo legato all’arte sia di quello legato alla cucina. Strano, direte voi, visto che per tutta la vita si è cibata solo di sangue di maiale e non ha mai assaggiato nessun tipo di alimento umano.  

 

Più che altro, so che posso sopravvivere per anni senza mangiare, e spingere il mio corpo nella vaga direzione dei suoi limiti mi dà una certa soddisfazione, mi fa sentire più viva di quanto non sia mai stata. So di persone che corrono per qualcosa come ottanta o cento chilometri attraverso la campagna–e non solo quella pianeggiante del Kent, ma anche quella collinare nei pressi di Sheffield–soltanto per provare la stessa sensazione. È come se, poiché stanno spingendo i loro corpi verso i limiti più estremi, potessero avvertire la propria mortalità. Cioè, arrivano fino allo stremo di ciò che significa essere vivi, e guardano dall’alto in basso verso l’enorme e incommensurabile vuoto sottostante, provando gioia perché non sono in quel vuoto, ma al di sopra. Ecco cosa significa essere vivi. Ma di norma la gente non vede oltre il limite e non si fa testimone del contrasto tra il tutto della vita e il nulla della morte, quindi non sente o non capisce, come invece fanno quei corridori, che la vita è esaltante.

 

L’approccio manieristico alla scrittura e i giochi di parole con cui ci intrattiene non appesantiscono il testo né lo rendono disturbante. La protagonista si mostra per quello che è, analizzando ogni singolo elemento che la circonda e che sente dentro di sé, non lasciando adito a dubbi. Il demone che la anima deve convivere con un lato umano impacciato, ma resiliente, in una battaglia continua che la porta allo stremo della sopportazione e al tempo stesso la fa muovere come un’ombra nelle esistenze degli altri. Non ha una casa, ma uno spoglio studio in affitto dove, secondo le regole del palazzo, non potrebbe nemmeno dormire. Ruba oggetti dal posto di lavoro in cui è appena stata assunta come stagista, la famosa galleria OTA, dove passa all’apparenza inosservata per la maggior parte del tempo. E a dispetto di questo le sue parole vogliono la luce, quella stessa luce che lei rifugge perché dolorosa, nonostante sia comprovato che non possa sciogliersi al sole come i protagonisti della sua serie preferita Buffy l’Ammazzavampiri. Non ci sono croci e nemmeno acqua santa a salvarla da una realtà che comunque non ha alcuna intenzione di abbandonare. Non è disperata ma lucida, anche quando prova a bere latte al posto del sangue e il suo corpo reagisce come la vittima di un tentativo di dolorosa ibernazione. Il rifiuto di una qualsiasi delle sue due parti violerebbe quella natura specifica e speciale, che non si sa come è riuscita a sopravvivere fino a questo momento senza compiere omicidi e senza assaggiare sangue umano. E se da un lato frasi secche e articolate si alternano in un movimento costante come le acque del fiume accanto cui girovaga nella speranza di trovare qualche animale morto, al tempo stesso è impossibile trovare armonia, perché il romanzo, proprio come Lydia, non ha una struttura circolare, ma simile a una linea retta, tendente all’infinito. Per farla breve, il libro non ha un inizio determinato e una fine, ma si muove come una scheggia sparata nel vuoto che a tratti rallenta per aprire divagazioni quasi oniriche, lasciando in sospeso il resto del mondo fuori. E in tutto questo, non possiamo prescindere dal fatto che la protagonista sia un’artista vera e propria. 

 

Spesso mi domando se il mio impulso di creare arte corrisponda a quello di consumare e distruggere la tela vergine del collo umano.

 

Per lei creare è necessario, perché è un modo di sublimare quella capacità di dare la vita che la sua condizione, quasi sicuramente, le nega. Compie la sua opera ragionandoci su, descrivendola, aggiungendo strati e strati di nuovi impulsi, portandola a essere inevitabilmente incompiuta. Che sia un modo per avvicinarsi a quel padre umano, scomparso, ma così dolce nei suoi ricordi, è certo; che sia un modo altresì di allontanare il sapore freddo dell’esistenza cui l’ha condannata la madre, è altrettanto certo. Il fatto che voglia collimare tutto questo in un dipinto raffigurante Baba Yaga ci porta a pensare che il conflitto sia destinato a essere perenne. Le modalità con cui si esprime, quasi vivesse e al tempo stesso avesse necessità di distaccarsi dalla vita per raccontarla meglio, sono efficaci e definitive, come le cose davvero definite non riescono mai a essere. Tutto il mondo che le ruota intorno è sfocato, con l’unica eccezione di alcuni abitanti dello stabile dove ha lo studio. Ben apre la porta sull’ignoto, spingendola a desiderare di provare sensazioni mai conosciute. Le interazioni con Anju, Maria, persino con Heather e Gideon al lavoro, seppur queste ultime pervase da un certo fastidio, sono attimi di colore diverso in una tavolozza dove il blu e il nero predominano. Su tutti il rapporto con la madre, unicamente raffigurabile con un colore che è condanna, angoscia e anche redenzione; il rosso del sangue e della vita presa e poi strappata si mescola a quello delle leggi durissime con cui è stata cresciuta, scarto demoniaco immeritevole persino di essere considerata vivente.  

 

«È qualcos’altro che ci dà da mangiare, non Dio. Dio non aiuterebbe un demone a sopravvivere, ed è questo ciò che siamo, Lyds. Siamo esseri innaturali, disgustosi e brutti. Guardaci; siamo fatte solo di peccato».  

 

Eppure nemmeno lei deve veder strappato via il proprio valore, in un’altalena di tacito rancore e sconforto per aver relegato la figura materna a margine, allo scopo di sopravvivere. Tutta la confusione e le domande, che al pari di un’adolescente qualsiasi si pone, sono intercalate da divagazioni poetiche e parallelismi con artisti sconosciuti ai più, ma molto importanti per correnti specifiche. La lacerazione del suo Io si dipana insieme alle parole che usa per tenersi insieme, consapevole che tutto quello che l’ha determinata fino a quel momento è legato a quanto la sua genitrice le ha trasmesso, non tanto con la trasformazione, ma con l’educazione.  

 

Mi sono accorta che demone è un termine soggettivo, e la scissione della mia identità tra diavolo e Dio, tra impuro e puro, è qualcosa che mia madre mi ha fatto credere, piuttosto che la realtà della mia esistenza. Tuttavia, dopo una vita passata a mangiare solo sangue di maiale, temevo di nutrirmi di qualsiasi altra cosa, specialmente umana, nel caso avessi sviluppato un gusto per tutto ciò, e poi una dipendenza. Invece di assaggiare sangue diverso, ho provato la fame, avvertendo il divario non tra il demone e l’umano dentro di me, ma tra la vita e la morte.

 

Dio e il cibo diventano imprescindibili, perché il dolore e la paura di affondare i denti in un collo umano serpeggiano in quelle vene rilucenti, come un senso di colpa che scalda e congela al tempo stesso. Ho detto fin da subito tra le righe che questo romanzo è, in un certo senso, un puro esercizio di stile. Ricco di arte e nomi di piatti tipici dell’Est, si spazia infatti dal Giappone alla Corea alla Malesia grazie alla passione di Lydia per i video delle vegan influencer asiatiche, il romanzo cerca di seguire la protagonista nella ricerca di qualcosa che la riempia, al pari del sangue di cui ha bisogno e di cui, in modo chirurgico, si priva per testare i propri confini. Ed è la fame del titolo che ci viene in aiuto, perché è quel desiderio di appropriarsi dell’esistenza che abbiamo il diritto di provare a stringere tra le nostre mani, oltre la mera necessità del sostentamento. La scissione demone – umana non è altro che un modo per affrontare la perdita e la rinascita, quasi impossibile se vogliamo, in un mondo che si lascia fissare su una tela assurda con colori presi in prestito alla morte, molto più generosa della vita. Gli ospedali e le case di riposo sono pallide stazioni di passaggio, dove sostare non più del dovuto, prima di lanciarsi nella folle corsa, o lenta passeggiata, verso un destino che pare incerto. Ed è stato questo, per me, il senso del libro. È un romanzo che si auto-anima, non saprei come spiegarvelo altrimenti, attraverso modalità assurdamente introspettive, ma nitide. Non è “Il Sogno nel Sogno” e tantomeno un gothic o fantasy, nonostante la protagonista sia un demone. Non è questo l’aspetto che ci porterà a ricordarci di lei e vi giuro che, se lo leggerete, non lo lascerete in un cassetto dimenticato; Lydia entra in punta di piedi e senza chiedere alcun permesso se non quello di cercare di passare inosservata. Dell’invisibilità ha fatto un’arte, del pennello un modo per sfondare le finestre sul mondo. Le sue parole sono appuntite come canini che lottano per uscire, mentre la sua anima è morbida come le sensazioni che pulsano nel sangue di chi la circonda. E quindi che cosa dirvi, cari Magnetici? Se cercate una lettura fuori dagli schemi, ben scritta, tradotta in modo eccellente e di sicuro impatto, questo libro fa per voi. Ancora una volta Harper Collins compie una scelta coraggiosa e lo fa con stile, dandoci uno scossone senza promettere sconti, lasciandoci col vuoto di una fame da colmare con sapori e colori del tutto nuovi e originali.

 

Io considero la mia vita come una linea, non un cerchio: la mia opera d’arte preferita di un artista Fluxus è il comando di La Monte Young, “Disegna una linea retta e seguila”, non per l’atteggiamento nichilista nei confronti dell’esistenza e del lavoro che incarna, ma perché rappresenta in una semplice forma, o mancanza di forma, la differenza tra la mia vita e quelle puramente umane. La mia tende verso un punto lontano nel lontano futuro. Una vita umana mira a tornare a qualcosa, o meglio al nulla, a rifarsi polvere.


 

 

 
 
 
 
 
Grazie alla CE per averci fornito l'eBook
 
 
 
 
 

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