giovedì 1 giugno 2023

Recensione a "Stigma" di Erin Doom

 


Genere: Romance
Editore: Magazzini Salani
Data d'uscita: 16 Maggio 2023
Pagine: 528
Prezzo: eBook 11,99 - cartaceo 18,90

 
 
 
 

Certi amori ci restano addosso. Come una cicatrice. La protagonista di questa storia non crede più nei miracoli. Troppe volte la vita l’ha masticata e risputata, illudendola che un futuro scintillante fosse in serbo per lei. Da sola e senza mezzi, Mireya decide di trasferirsi a Philadelphia in cerca di fortuna. Con sé ha soltanto una vecchia valigia, intorno l’inverno gelido di una città sconosciuta. Il suo personale miracolo sembra compiersi quando si imbatte in un’insegna al neon che si staglia nel buio della notte. Eccentrico e sfarzoso, il club Milagro’s è un luogo capace di affascinare chiunque ne varchi la soglia, Mireya compresa. Con l’ostinazione di chi non ha niente da perdere, la ragazza riesce a farsi assumere come barista. Il Milagro’s, però, è più di un locale esclusivo. Dietro le sue porte chiuse, oltre i lustrini e le luci di scena, si intrecciano destini e sussurrano segreti. I più oscuri si condensano tutti nel viso aspro e incantevole di Andras, il capo della sicurezza. Fra Mireya e Andras è odio a prima vista. Entrambi portano sulla pelle gli stessi segni, hanno addosso il marchio di chi ha dovuto imparare a lottare per sopravvivere. Eppure i due continuano a imbattersi l’uno nell’altra, come attirati da una forza misteriosa che non sanno né possono contrastare, stretti da un filo dorato più forte di un destino.
 
 
 
 
 
 
 
 

Non sei fatta di carezze. Sei fatta di ammaccature. Hai mai visto niente di più bello di un livido che sembra un fiore?
 
Non è facile parlare di questo libro, amici Magnetici, quando sei arrivato all’ultima pagina e vorresti aggrapparti a quello che ti ha dato per paura di lasciarlo andare. Come se facendolo non riuscissi più a respirare bene, come se il dolore imprigionato sotto le costole non volesse darti scampo e cercassi di trovare un pensiero lucido per poterne scrivere in modo appropriato. Allora faccio di testa mia e scombino le carte. Pare che in una recensione che si rispetti si diano pennellate di sinossi, si gettino sul foglio citazioni con la cura di non farlo a sproposito, si cerchi di non dire troppo per non togliere il piacere della lettura, e poi si finisca col consigliare o meno l’acquisto. Io vi dico subito che voi questo libro lo dovete leggere, così passiamo direttamente alla parte interessante e non ci pensiamo più. Lo dovete leggere, anche se non avete mai sentito parlare di un fenomeno editoriale, se gli young adult non vi piacciono, se la trama non vi colpisce. Anzi, fatevi un favore e non leggete niente che lo riguardi, nemmeno questa recensione. Perché ogni parola che posso riversare qui sopra è abbastanza inutile. Come fai a districarti in quello che sono Mireya e Andras? Non puoi, non puoi farlo nemmeno se li hai creati, credo, perché loro vivono di vita propria, si strappano di dosso i loro tormenti e ti invitano ad accogliere i lividi come se fossero pane quotidiano, qualcosa da cui non vuoi staccarti perché equivarrebbe a strapparti cuore, tendini, e muscoli.
Per me, questo, è un libro indefinibile, come una porta socchiusa su qualcosa che ha il sapore della speranza e al tempo stesso si scontra con l’ineluttabile consapevolezza che c’è un motivo per cui gli uragani più terribili hanno un nome di donna. Ti lasciano inerme lì, a cercare di raccapezzarti nel groviglio che ti si crea nello stomaco, per rispedirti in una dimensione che non ti è mai appartenuta o che hai avuto troppa paura di vedere. Gli occhi felini di Mireya ti respingono, così come la durezza di Andras.

«Perché sei venuta qui se non sopporti nemmeno di guardarmi?» soffiò sulla mia bocca. «Te lo dico io: perché anche se ci convinciamo che ci piacciono le carezze, nulla lascia il suo marchio come l'impronta di un morso».
 
Non c’è una voce rassicurante a guidarti tra le pagine, perché quella voce non è protagonista, ma sa di dolore atroce e rifiuto, repulsione quasi, e ti inietta una venefica verità che si infila nelle ossa. Mireya non è niente di quello cui siamo abituati. Il suo dolore potrebbe essere quello di milioni di giovani donne, ma il modo feroce in cui si ammanta di esso ci lascia annichiliti. È perfettamente consapevole di muoversi nel mondo come una furia devastatrice, fiera, rabbiosa e assolutamente intoccabile.

Era unica. Sapeva guardarti come nessuno. Aveva gli occhi di chi, dopo essere stata sconfitta troppe volte, ha imparato a dar battaglia solo con uno sguardo. 
 
Perché come puoi farti toccare quando l’amore più profondo si accartoccia su se stesso in una spirale d’infelice impotenza? Questo non è un libro sull’amore e lo è più di molti altri. Direte che scrivo parole senza senso, ma posso asserire, dal profondo del mio cuore increspato, che un senso ce l’hanno. Perché questo romanzo parla dell’amore più puro che possa esistere, quello tra madre e figlia, e di quello di una ragazza che ha deciso di compiere una scelta dolorosa pur di proteggere qualcuno di indifeso. Parla dell’amore nei confronti di chi, perché troppo fragile o perché appena nato, non può affrontare la crudeltà del mondo là fuori. L’indifferenza della giovane età che porta all’abbandono, così come l’insana propensione per qualcosa di completamente sbagliato, sono cose da cui non ci si può difendere se non hai armi. E sia Andras che Mireya le hanno create facendone dei capolavori, le loro armi, indossando al tempo stesso intorno ai cuori una corazza così dura da renderli impenetrabili, non importa quanto sia assordante il rumore che fanno i loro mondi quando collidono.

«Sei una di quelle che piange sotto la doccia, così puoi dire a te stessa che quelle non sono lacrime. Sei una di quelle che ha un sorriso in grado di spezzare il cuore di un uomo, ma lo usa solo per se stessa. Una di quelle che si rompe piuttosto che piegarsi, che genera cataclismi nelle vite degli altri e non si preoccupa nemmeno di chiedere il permesso» ringhiò piano, soppiantandomi con le lame taglienti dei suoi occhi. «Tu sei una di quelle giostre su cui ci si ammazza».

Ho sempre pensato che nelle anime tragiche fosse nascosta la bellezza profonda dell’universo più buio, quello dove non esistono nemmeno le stelle: adesso ce l’abbiamo davanti agli occhi quella bellezza che, come un tatuaggio impresso con luce nera, si schiude per noi in un gioco al massacro, visibile solo a coloro cui è concesso vederla. Ogni parola che scivola fuori dalla bocca di Mireya appartiene a tutti coloro che combattono contro qualcosa più grande di loro, quello spettro che mangia le anime di chi amiamo quando scelgono, più o meno consapevolmente, di accogliere la pace fittizia di una dipendenza che le distacca dal mondo e le porta in un vivaio allegro e falso dove nessun dolore ti può lambire. E non c’è niente che puoi fare per tirarle fuori di lì, quando la certezza di essere meno importanti di quel momento di evasione ti si attorciglia nelle vene, spedendoti dritta verso domande per cui non riesci a trovare una risposta.

Inizia tutto dal dolore. O dall’amore, sempre che non siano la stessa cosa. Vorrei credere che sia stato proprio l’amore a spingerla nella voragine devastante che non avrebbe distrutto soltanto la sua esistenza, ma anche la mia. Ma la verità è che il mondo non risparmia nessuno. La vita fa a pezzi chiunque, senza distinzione. Non tutti, però, hanno il coraggio di rimettersi insieme.
 
Mireya si muove nello spazio come una figura volutamente informe e danza in punta di piedi tra le ombre: reagisce alla vita con una chiusura totale e dietro il bancone del Milagro’s trova il distacco definitivo nascosto nelle note vellutate dei drink che prepara con maestria. Quel miraggio di un lavoro voluto strenuamente e la ricerca ossessiva di un mezzo per raggiungere uno scopo la portano a sfondare con insistenza le mura della nostra perplessità. Come può una ragazzina così piccola arrivare a crepare i recessi delle nostre certezze, spazzandole via tutte, aggrappata come un naufrago alla vita che le passa davanti in modo indecente e inesorabile? Il presente si blocca nel ricordo di quei momenti dolcissimi, avvolti dalla carezza di chi avrebbe dovuto metterla sempre davanti a tutto per poi doversi trasformare, all’improvviso, in una madre per chi le ha donato un cuore poco più che bambina, artigliata alla certezza di un legame inesauribile.
 
«Amiamo come siamo stati amati» ammisi. «E odiamo nel modo in cui ci hanno insegnato a odiare».
 
E in tutto questo c’è la consapevolezza tagliente che due occhi artici le mettono davanti. L’oscurità e la rabbia di cui Andras è ammantato sono ineluttabili come l’attrazione negata che aleggia sul filo di ogni pagina. C’è sempre un motivo per cui le anime si trovano anche quando sono sbagliate e non hanno posto.
Questo è il punto, amici Magnetici, perché stiamo parlando di due cuori che in sé non hanno più spazio e soprattutto, in un modo che toglie il respiro da quanto fa male, alcuna speranza.
 
Voglio che mi guardi come se fossi la cosa più disgraziata che hai mai visto, ma anche l’unica che non puoi levarti di dosso. Quella che ti cammina dentro, che danza coi tuoi orrori e compone con le tue vene meravigliose strofe di musica. Voglio che mi guardi così. Proprio così. Come un capolavoro maledetto. Il nome lo lascio scegliere a te.
 
Nel palcoscenico della propria vita, Andras è un combattente: ha il corpo segnato da cicatrici, niente rispetto a quello che non si vede, di cui si veste come una gloriosa armatura, sfottendo il mondo in cui si muove come un predatore. Non sappiamo quasi nulla di lui, ma questo non gli impedisce di scavare nelle nostre ossa e cercare un modo per disturbarci, per ammansirci prima di sferrarci un pugno deciso alla mascella. Ed è proprio con un pugno che sa di disgusto che loro due si incontrano, messi fin da subito l’uno all’opposto dell’altra come un re nero e una regina bianca, e mai accanto, perché accanto è un posto per pochi. Quel posto speciale, per entrambi, è già occupato da uno spettro e da un fantasma che, e so che vi sembrerà strano, non sono fatti della stessa sostanza. Andras e Mireya sono rabbiosi e chiusi in se stessi, hanno creato roccaforti che sono prigioni: se lei da una parte non comprende fino in fondo cosa sta succedendo lui, che ha il nome e lo spirito di un angelo ribelle, è consapevole che invece sia un atroce scherzo del destino.

Ma Andras era l’angelo che brandiva una ribellione verso Dio. L’angelo che aveva osato troppo. L’angelo a cui avevano strappato le ali, ma aveva cercato di riprendersele, nel suo modo terreno, nella sua maniera nera e sporca che non conosceva mitezza. Con piume e sangue e ossa fracassate in caduta libera, con tutta la rabbia di un’anima ripudiata, destinata a portare negli occhi il paradiso che l’aveva esiliata.
Non era la maniera in cui chiameresti un bambino, quando apre gli occhi per la prima volta e quello è il benvenuto che riceve dalla vita. Eppure lui non lo nascondeva. No, se ne vestiva, lo indossava come un manto, una corona di spine attorno alle spalle.
 
 
 Si muove con grazia felina in un mondo che è suo di diritto, dove la violenza domina e non esistono che brevissimi attimi di tenerezza, mai rivolti verso di lei se non di nascosto e senza alcun senso apparente. Perché essere deboli significa dare il potere a qualcun altro di ridefinire la luce che ci accarezza la pelle e questo non puoi farlo quando sei abituato al buio.
Il Milagro’s spalanca le proprie porte sotterranee per abbracciare i clienti e un’anima smarrita, quella di Mireya, che ha il nome di una regina lontana e decaduta ignara della portata del proprio potere. Zora, la manager del locale, la accoglie come un cucciolo randagio senza nutrire alcuna compassione, spinta da un’algida motivazione di cui non comprendiamo il fine. Questo ci sarà svelato, almeno in parte, solo quando sarà Andras a prendere la parola, nell’unico capitolo in cui sentiamo per la prima volta la sua voce. Il punto di vista univoco con cui si snoda tutto il romanzo è quello della protagonista: insieme a lei sentiamo i morsi salati del dolore al costato, la fame che le scava occhiaie di disperazione, la corazza pesante dietro cui si nasconde che le scalfisce la pelle in modo crudo e spietato. Tutto il contorno di quel locale di Philadelphia che sa di miracolo come il nome che porta è sfocato, inadatto, con pochissimi sprazzi di luce. C’è James, l’amico barista, il collega che riesce a intravedere la voragine nel cuore di Mireya e l’unico a strapparle un sorriso stanco: è il solo che, come una lanterna di Natale, scalda per un attimo una terra fredda e desolata.
C’è Ruby, la cameriera che prova a entrare nel mondo della nuova arrivata, incarnazione della pazienza e di tutto quello che lei non può essere, perché colma di sogni e aspettative. L’unica per cui, in un barlume del ricordo di cosa significhi la parola amicizia, Mireya reagisce davanti ad un’offesa, prendendone le parti. Il resto è confuso in una girandola di velluti, luci di cristallo e penombre, esaltate dal gusto corposo di un liquore che scivola sul palato e poi nella gola, bruciandola. Le fiamme che alimentano Andras, maledetto fino all’inverosimile, si scontrano con il freddo costante nella vita della protagonista, fino a quando una febbre, letterale e metaforica, non apre uno spiraglio su domande che non vogliono, non possono volere, una risposta. Vicini per un attimo, Mireya non può evitare di riflettere sul fatto che negli occhi di Andras ci fosse sempre qualcosa di rotto, di rubato, un’incrinatura insanabile. A volte, quello spacco era una lama spietata che non aveva paura di usare. Altre, tra i labirinti di quelle fenditure, intravedevo qualcosa di diverso. Una creatura oscura, straziata e in fin di vita. Un ammasso morente: l’ombra di un immenso dolore. 
 
Il modo onirico in cui le parole scivolano in incastri perfetti ci permea gli occhi e il cuore mentre leggiamo, lasciandoci muti davanti a uno spettacolo più grande di noi. Eppure non possiamo fare a meno di sperare, fino alla fine, che accada qualcosa che interrompa questa poesia triste e bellissima, fatta di tutto quello di cui sono fatti i sogni, calpestati come foglie morte dai passi lievi di una fanciulla nel bosco che si muove come una principessa con una corona di gigli e diaspro, inconsapevole di quello che ha lasciato dietro di sé. Perché in questa filigrana brunita non si dipanano solo le storie di Andras o Mireya, ma quelle di coloro che sono venuti prima e hanno portato via ogni speranza. Non c’è nessuna casetta nel bosco che possa riscaldare con le sue tiepide pareti il viaggiatore stanco e infreddolito che affronta il gelo della città durante le feste di Natale. Non c’è nessuna voce rassicurante che ti accolga come un abbraccio e ti faccia capire che non importa dove stai andando e quanto tempo ci metterai, perché ci sarà sempre quel porto sicuro. Le braccia fanno male quando si stringono intorno a muscoli che adesso sono spigoli, e la morbidezza di curve giovani e antiche trattiene il fiato come fosse una condanna. Ecco cosa è stato questo libro per me. Per qualcuno potrà essere forse ridondante, lungo e poco incisivo. Eppure non c’è una sbavatura, un momento di pausa, nonostante la discesa infinita della caduta. E come sempre accade quando non c’è una rete di salvataggio, le ginocchia si frantumano e la pelle si lacera, dando vita a una fitta trama di cicatrici che va ad accompagnarsi a quell’unica a sinistra, sotto il costato: un punto interrogativo rovesciato, un amo che sembra la metà di un cuore, dove non c’è spazio nemmeno per un respiro. Uno stigma che è uno specchio in cui guardarsi per ammettere che non deve esserci per forza un lieto fine per tutti, soprattutto per coloro che hanno il cuore coperto di ruggine perché le tempeste li hanno travolti e non si sa ancora dove siano finiti. È Andras a dettare le regole e lo fa guardandoci negli occhi, ma è Mireya cui pensiamo quando arriviamo all’ultima pagina. Lui era lo scarabocchio nel diario di un matto. Inquieto e affascinante, con un’anima di inchiostro e un delirio al posto del sorriso ma lei rimane a guardarlo come una bestiolina impaurita, adesso che è troppo tardi, consapevole che un buio così profondo non lo scardini nemmeno se muori nel tentativo di farlo. Perché non c’è una fine a quell’abisso. Non c’è una fine quando non si è protagonisti di quella storia unica. Non c’è una fine. E basta.
 

 

 

 
 
 
 
 
Grazie alla CE per il cartaceo
 
 
 

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