Editore: Magazzini Salani
Data d'uscita: 27 Giugno 2023
Pagine: 606
Prezzo: eBook 10,99 - cartaceo 16,05
«Noi non siamo il dolore che abbiamo subìto, siamo la follia con cui ci rialziamo. Perché certe sofferenze non si possono superare rimanendo puliti.»
Oggi è successa una cosa strana, amici Magnetici. È successo che dopo aver letto i ringraziamenti alla fine del libro avessi la voglia irrefrenabile di trovare qualcuno con cui parlarne, per dare sfogo a tutto quello che sentivo da due giorni, e non ci fosse nessuno.
Quindi le parole hanno iniziato a mescolarsi nella mia testa come cavalli imbizzarriti, rincorrendo una scena, una battuta, uno spazio indistinto tra le poesie che aprono ogni capitolo. E adesso sono qui, davanti a questa tastiera che soffre per la violenza con cui voglio trasmettere il mio pensiero, in un modo che forse solo il violino di una strega potrebbe capire. Perché ci sono libri che ti dilaniano il cuore per il loro finale e libri che sanguinano in ogni singola pagina, lasciandoti in un angolo a chiederti come sia possibile che esista nel mondo qualcuno in grado di narrare una fiaba così, con protagonisti che non dimenticherai mai e storie che s’intrecciano come cicatrici addomesticate. Tutto questo e molto, molto di più, è “Sindrome”.
Quindi le parole hanno iniziato a mescolarsi nella mia testa come cavalli imbizzarriti, rincorrendo una scena, una battuta, uno spazio indistinto tra le poesie che aprono ogni capitolo. E adesso sono qui, davanti a questa tastiera che soffre per la violenza con cui voglio trasmettere il mio pensiero, in un modo che forse solo il violino di una strega potrebbe capire. Perché ci sono libri che ti dilaniano il cuore per il loro finale e libri che sanguinano in ogni singola pagina, lasciandoti in un angolo a chiederti come sia possibile che esista nel mondo qualcuno in grado di narrare una fiaba così, con protagonisti che non dimenticherai mai e storie che s’intrecciano come cicatrici addomesticate. Tutto questo e molto, molto di più, è “Sindrome”.
Visto il preambolo, metto subito le mani avanti. Non sono in grado di scriverne una recensione. Non credo che sia proprio possibile in realtà, perché significherebbe tentare di ridurre in polvere le ali di una farfalla e non sentirsi in colpa mentre lo facciamo. E quindi mi sono detta: cosa avrebbe fatto Sia al mio posto? Avrebbe utilizzato il linguaggio che conosce meglio, quello delle fiabe, perché non puoi non chiamare le cose con il proprio nome se non usi i termini giusti per esprimerti, la giusta forza, la giusta melodia. Ed allora eccoci qua. L’antefatto lo riduciamo ad un “C’era una volta”, lo svolgimento lo lasciamo a qualcun altro.
“C’era una volta”… e tutto quello che ne consegue.
Immaginate di mischiare le sostanze più opposte e nocive del mondo in un unico bicchiere, sostanze che singolarmente esprimono effetti disastrosi e catastrofici. Venendo a contatto tra loro, le vedrete cambiare forma e colore.
E quando queste quattro sostanze vengono rinchiuse in una stanza, osservate da psicologi dietro un vetro di sicurezza, ecco che i gatti randagi riconoscono i loro simili e non li attaccano, anche se li guardano con diffidenza. È quello che succede alle persone marchiate da un demone che le divora, silenzioso il più delle volte, che inesorabile conta le gocce di speranza quando cadono e svaniscono nel nulla, evaporando.
«Edgar Chen, diciannove anni, disturbo da stress post traumatico con recente sviluppo di agorafobia.» È il paziente numero uno, nascosto dietro un cappuccio e felpe enormi, paranoico, spaventato dagli spazi aperti e affollati, che non si separa mai da una pistola. È il ragazzo terrorizzato che incute timore nella stessa famiglia, che ha visto morire la sorellina tra le proprie braccia durante una sparatoria in un centro commerciale. Eveline se n’è andata per tutti, ma non per lui che l’ha tenuta stretta sino alla fine, circondati dall’indifferenza di chi per mettersi in salvo li ha ignorati in un lago di sangue.
«Edgar Chen, diciannove anni, disturbo da stress post traumatico con recente sviluppo di agorafobia.» È il paziente numero uno, nascosto dietro un cappuccio e felpe enormi, paranoico, spaventato dagli spazi aperti e affollati, che non si separa mai da una pistola. È il ragazzo terrorizzato che incute timore nella stessa famiglia, che ha visto morire la sorellina tra le proprie braccia durante una sparatoria in un centro commerciale. Eveline se n’è andata per tutti, ma non per lui che l’ha tenuta stretta sino alla fine, circondati dall’indifferenza di chi per mettersi in salvo li ha ignorati in un lago di sangue.
«Olivia Reed, diciotto anni, anoressia nervosa. È stata intubata la settimana scorsa, ha ancora allucinazioni visive e uditive che le impediscono di mangiare e di dormire. Pesa sempre meno, è arrivata a trentacinque chili.»
È la ragazza dagli occhi color del miele, che indossa più strati di vestiti, ma non è abbastanza invisibile, che vorrebbe sparire senza fare alcun rumore per mettere a tacere le urla e le cattiverie che un fantasma le sussurra all’orecchio. È la dolcezza empatica che distoglie lo sguardo, ma sente tutto, imprigionata in un castello di apparenze e distacco, figlia di una speranza trasformatasi in eterna delusione. «Derek Hill, ventitré anni. [...]Disturbo intermittente della rabbia, incarcerato per aggressione aggravata. Evita qualsiasi tentativo di comunicazione e rifiuta di ascoltare o anche solo di partecipare alle sedute.» È il numero 204, quello scritto sulla sua divisa arancione, il giovane gelido e indifferente a ciò che lo circonda, distante da ogni interazione perché ha innalzato un’invalicabile barriera tra sé e gli altri. È colui che sta in silenzio, composto e assente, all’apparenza cieco e sordo a tutto tranne che alla madre e al fratello. È il Nord cui tendere, se il Nord volesse veder bruciare il mondo. E poi c’è lei, Sia Carillo. Entra in scena e come un vortice nero spezza il silenzio immobile, smascherando le sferzate ipocrite che nessuno vuol pronunciare. È lei che per prima parla dell’effetto domino, con cui potenzialmente mettere loro quattro in una stanza li potrebbe spingere ad ammazzarsi a vicenda, evitando così ai medici il lavoro sporco. È lei, ancora, a pronunciare la sentenza che in un modo o nell’altro sarà il filo conduttore del libro, assurgendo a ruolo di leader, anche se tutti e quattro hanno lo stesso spazio e margine di azione nei confronti di se stessi e del proprio passato. È insindacabile nel comprendere i meccanismi messi in atto dalla dottoressa Settermann: «Mi pare ovvio che la parte più oscura, quella troppo brutta per poterne sostenere la vista, debba essere allontanata dalla società. Siamo l’erba cattiva che dev’essere estirpata in silenzio, per non turbare la sensibilità dei bravi cittadini.»
E questo è quindi l’antefatto, amici Magnetici: in una manciata di pagine, circa una decina, abbiamo già compreso che ci aspetta un cammino non facile. Ci appassionerà. Ci legherà corde strettissime intorno ai polsi e ridurrà il nostro stomaco ad un pugno. Non sarà piacevole, ma ci incatenerà. Sarà una continua scoperta, perché a cosa servono le ali se poi non vuoi provare ad usarle, a cosa servono le fiabe se non a comprendere il mondo che ti circonda? Rimaniamo lì a guardare i fori dei proiettili sul vetro, annichiliti, e immaginiamo il dolore sordo di Edgar, Olivia e Derek, oltre alla lucida follia di una strega dai boccoli scuri e labbra rosse. E poi girerete inevitabilmente pagina, perché come tutti i bambini vorrete sapere che fine fa il mostro, per ritrovarli cinque anni dopo di nuovo insieme intorno ad un altro tavolo, quello di un concorso spietato per entrare alla Big World News, uno dei gruppi mediatici più rilevanti al mondo. Che sia questa la strada per unire i fili delle esistenze di una scheggia, un proiettile, un accendino e una rosa?
Lo svolgimento, o qualcosa di simile, o inutile tentativo di rispondere alla domanda.
C’era una volta, qualche tempo fa, in una città degli Stati Uniti, un gruppo di quattro ragazzi che partecipava ad un concorso indetto da una grossa compagnia. Erano in competizione con altri due per accaparrarsi i servizi migliori sul campo, un reportage in case di cura, incidenti automobilistici o ipotetiche denunce di sfruttamento degli operai di una fabbrica. Formavano un nucleo strano, senza nome, che si distingueva dai Serpeverde e dalle Stelle Cadenti perché i suoi componenti erano diversi eppure si amalgamavano in una sinfonia perfetta e unica. Erano tutti esseri magici, ci sta bene non credete?, e avevano poteri immensi e spaventosi. C’era chi sentiva le voci vivendo in simbiosi col fidanzato morto, annegando nel rifiuto di vivere che nessuno riesce a capire. C’era qualcuno con il fuoco dentro, soppresso dalle urla che non smettevano mai di lacerargli le orecchie e il cuore. C’era chi aveva la mente talmente scorticata da trovare un momento di pace solo nel sangue che gli scorreva sulle mani, mentre osservava con occhi trasparenti la realtà per quella che è, con tutte le ombre necessarie alla luce che non aveva mai conosciuto. E poi c’era chi conviveva con una rosa bianca macchiata, che annullava il dolore straziando un violino, cercando di cancellare l’odio che una bambina non dovrebbe mai ricevere da chi l’ha generata. Eccoli qua, i nostri eroi mancati, protagonisti sbagliati come mendicanti o re in esilio. O forse no. Sia mi sussurra che sto pensando troppo e che dovrei davvero limitarmi ad ascoltarla. È prepotente come al solito, ma quanto amiamo il suo modo di essere sopra tutte le inutili righe che questo mondo ha tracciato.
Riproviamoci allora e forse, se le do retta, riesco a trasmettere meglio quello che voglio dire.
Un altro tentativo maldestro.
C’era una volta, tanto tempo fa, una città non meglio identificata. In un enorme palazzo di vetro e acciaio lavoravano una strega, un drago, una sirena e un principe di ghiaccio. All’inizio non erano molto sicuri di trovarsi nel posto giusto, ma a poco a poco iniziarono ad imparare. E mentre imparavano, si conoscevano. Erano sottoposti di continuo a prove estenuanti e difficili, che mettevano a rischio i loro fragili equilibri e quella specie di amicizia che stava nascendo. Erano esseri straordinari, ma troppo chiusi nel loro buio per vederlo davvero. La sirena non riusciva a cantare, ma quando a stento intonava una melodia, il tormento dei suoi amici si attenuava e non potevano guardarla se non con meraviglia. Mentre la sua voce leniva le ferite altrui il suo corpo svaniva, fragile involucro troppo inadatto a contenere un cuore così puro. Eppure la sirena non sapeva che accanto a lei qualcuno la osservava con occhi di giada e artigli come lame. Era un drago maestoso, ma incatenato, che si feriva ogni volta in cui provava a spiegare le ali perché aveva un grido muto dentro, che vagava per il mondo come un esule in un parco giochi di dolore. Davvero mi state chiedendo se ci sono principesse in questa fiaba? No, amici Magnetici, non ci sono principesse, e non ne avete bisogno, credetemi.
Accanto al drago e alla sirena lavorava anche una strega potente, che parlava come un pugnale e sanguinava di nascosto per il suo popolo. Tutti amavano le principesse perché erano luce, stelle per la loro gente, ma …
«Poi ci sono quelle come me, le streghe dannate dal mondo intero per aver stretto dei patti con la natura e per aver ricordato al popolo che il prezzo va sempre pagato.
Vedi, le streghe non ammaliano chi le guarda… loro spaventano, terrorizzano e spezzano le torbide catene che legano gli uomini all’ipocrisia.»
Vedi, le streghe non ammaliano chi le guarda… loro spaventano, terrorizzano e spezzano le torbide catene che legano gli uomini all’ipocrisia.»
Sapevo che avrebbe preso la parola, sarebbe stato impossibile altrimenti… ma torniamo a noi. Aveva un destino questa strega in particolare, quello di saper leggere le maledizioni altrui, perché le sue sorelle gliele sussurravano e lei aveva il compito di riferirle. I compagni lentamente si abituarono al suo modo di vedere le persone e di parlare, anche quando lei faceva di tutto per spezzare gli equilibri, e un principe di ghiaccio la teneva sotto controllo perché non si facesse troppo male. Aveva un’abilità particolare questa strega, che chiameremo Sia, ed era quella di leggere anche il passato, il presente e il futuro, mescolando profezie, sarcasmo e una discreta dose di elegante menefreghismo. Vedeva oltre e vide oltre anche la prima volta in cui incontrò colui che da sempre le era stato proibito per legge: reali e stregoni non si mescolano, ma in Derek aveva riconosciuto il proprio ragno, colui che avrebbe difeso a costo di morire.
«Accetta di essere il mio ragno e nessuno potrà più farti del male.
Accetta di essere il mio ragno e nessun popolo oserà condannarti. Mi basta un sì, principe di ghiaccio, e ridurrò in poltiglia ogni tuo male, perseguiterò con mille maledizioni chiunque penserà di spodestarti. Distruggerò chi ti ha fatto sanguinare.»
Accetta di essere il mio ragno e nessun popolo oserà condannarti. Mi basta un sì, principe di ghiaccio, e ridurrò in poltiglia ogni tuo male, perseguiterò con mille maledizioni chiunque penserà di spodestarti. Distruggerò chi ti ha fatto sanguinare.»
Lo avevo detto sin dall’inizio che non avrei potuto scrivere di questo romanzo, anche perché credo che le parole per farlo non siano ancora state inventate. E questo è un fatto, a mio avviso, inappuntabile. Ogni pagina è un vortice di emozioni provocate da questi protagonisti così distaccati da un’equazione che non li accetta per quello che sono. Sia, catalizzatore di rabbia, incomprensione, e irritante ogni oltre immaginazione, scardina le certezze che imprigionano i suoi compagni, rassegnati ad essere invisibili in un mondo che non è pronto a cogliere le mille sfumature del dolore di cui sono ammantati. Sono persone che non possono ottenere le luci della ribalta perché l’unico luogo in cui sono ammessi è l’oscurità del dietro le quinte, eppure riscrivono completamente il senso di appartenenza al palcoscenico che li ha emarginati.
Esistono persone fuori posto, tasselli ingombranti che vagano alla ricerca di un luogo dove fermarsi. Vivono tutta la vita con l’idea di essere semplici spettatori, personaggi secondari senza luce e privi di voce. Elementi sacrificabili per il bene comune.
Attendono la fine della scena per potersi spegnere. Si sa che il mondo apprezza solo i personaggi principali e che gli eroi delle favole vengono incorniciati, ricordati per l’eternità come trionfatori. Chi ricorda i contorni di una storia? Il passaggio delle figure sgraziate sullo sfondo? Il sussurro di una persona senza luce? Nessuno.
Attendono la fine della scena per potersi spegnere. Si sa che il mondo apprezza solo i personaggi principali e che gli eroi delle favole vengono incorniciati, ricordati per l’eternità come trionfatori. Chi ricorda i contorni di una storia? Il passaggio delle figure sgraziate sullo sfondo? Il sussurro di una persona senza luce? Nessuno.
Sono come un quadro che non ha un autore, come il gemello di troppo che serve solo a salvare l’altro, un animale in via di estinzione, qualcosa che non serve alla società, che spaventa e fa rabbrividire nel migliore dei casi. Sono quelle anime costrette negli istituti, sferzate da voci che sentono solo loro, che inseguono una musica troppo complessa perché il mondo possa riconoscerne la struggente dolcezza. Ma qualcosa si spezza quando qualcuno, potente e magnifico, decide che è il momento di salvare chi ama, anche se consapevole di non poter salvare se stesso. Sono tutti ragni che la strega vuole accudire, anche se i modi con cui decide di farlo sono feroci ma necessari per rendere perfetta ed essenziale quella sbavatura in un quadro di pace naturale.
Eppure è sempre lei che, maledetta dal troppo amore, è condannata a ripetere in un gioco continuo quei passi che le sono stati imposti, pena la perdita di coloro che devono salvarsi nonostante tutto. È lei che indica la strada al drago affinché inizi a sputare fuoco, alla sirena perché finalmente possa liberarsi dalle catene, e al principe che adesso può piangere quelle lacrime di ghiaccio così preziose da scaldare il mondo. È lei che, forte e indifesa al tempo stesso davanti a un mostro impronunciabile, ci accompagna e ci scuote, sveglia i dormienti in un mondo di apparenza, lanciando un grido disumano che accogliamo come pioggia vivificatrice o maledizione di quella misericordia reale che è riuscita a sfiorare.
Potreste pensare che questo romanzo sia una lunga e atroce poesia, senza una storia come impalcatura, senza un ritmo se non quello del sangue. Questo perché ne ho parlato come non si dovrebbe parlare di un libro, ma io vi avevo avvertiti e quindi ho la coscienza a posto. Giusto per tornare nei ranghi, vi confermo che ha un incipit, uno sviluppo e una fine. Secondo i canoni, è tutto al posto giusto. Vi consiglio di leggerlo perché è scritto benissimo, i personaggi sono dettagliati, il ritmo è perfetto. Tre righe e abbiamo risolto il problema.
Ma qualcosa scava, come un goblin che cerca il suo posto, o il cavaliere che non vuole abbandonare il re da proteggere. Qualcosa gratta in modo insistente sulla superficie delle tre righe di cui sopra, e poi esplode. Questo libro lo dovete leggere per un solo motivo, un motivo molto semplice in effetti. Voi lo dovete leggere perché dopo non sarete più gli stessi. Perché il bianco e il nero saranno lì, imprescindibili e immutabili, ad attirarvi nella loro morsa. Perché se avete mai vissuto una perdita, una violenza, un rancore che vi ha tolto il fiato, o semplicemente avete pensato di non essere adatti a questo mondo, vi accarezzerà come la mano gentile che vi è mancata nel momento più buio. Perché se avete scelto di vivere nel vuoto quando tutto fa male, se avete privato il vostro corpo di cibo e di amore, se avete scelto di guardare dall’alto un fiume che scorre impazzito chiedendovi quanto tempo potrebbe impiegare il vostro cuore a fermarsi, allora ne avete bisogno. Magari quel momento è passato e adesso le ferite non fanno più così male, eppure persiste una parte di voi che segretamente sa di non appartenere al mondo reale, ma a quello delle fiabe, implacabile per la sua crudeltà e molto lontano da quello che narra la televisione. È quella parte che anima il vostro spirito di artisti erranti o timidi esploratori, per cui ogni esperienza è un traguardo faticoso quando per gli altri tutto appare semplice. A voi le parole di questo romanzo suoneranno familiari, perché sono scritte con una penna fatta di dolore e smarrimento, con l’unico scopo di non farvi sentire mai soli. Come è possibile valutare un dono del genere? Come è possibile esprimere un parere davanti al complesso strato di verità umane svelate, come è possibile anche solo parlarne? Non ci sono più petali, sono stati strappati tutti e giacciono sul pavimento di un castello maledetto. Eppure li devo trovare, questi cinque petali rossi, allineati su un palmo bruciato dove la linea della vita è ormai una cicatrice. Cadono leggeri e sfiorano le pagine, danzando intorno alle rose bianche e ai mostri che le hanno fatte sanguinare: lievi come una sciarpa che non toglierai mai, rimangono attaccati alla pelle e al cuore, fino a svanire in un vuoto che adesso è pace, dopo averci fatto troppo, infinitamente, male.
«La mia follia è un male .»
«La follia non è un male. È un ramo del bene che gli uomini tentano di tagliare via, dà loro fastidio sapere che, in fondo, siamo tutti dei pazzi che tentano di trasportare fardelli e farli sembrare leggeri. Perciò cresciamo con l’idea che non dobbiamo mostrare al mondo le nostre imperfezioni, e la sofferenza è la più grande forma di imperfezione esistente. Nascondi questo, nascondi quell’altro… chi l’ha detto che dobbiamo essere impeccabili per essere degni di esistere? »
Grazie alla CE per il cartaceo
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